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LETTO IN LUNGODEGENZA
Torna alla galleryCittà di S.Pietro Vernotico, pianura altosalentina, tramontana moderata e nuvole veloci, inverno fuori e dentro. Cancelli dell’ospedale “N.Melli”. La guardiola è un locale, più che una temibile frontiera. Praticamente, passa chi vuole. E forse è giusto così, chi soffre non accetta orari. Siamo inviati dal nostro centro di ricerca, è in corso una commessa per la progettazione di arredi ospedalieri.
Ci accoglie il dottor Stricchiola, sottolinea l’importanza della “TR” nel suo cognome e sorride nonostante l’inferno della lungodegenza. Camminiamo, silenziosamente, su viali di linoleum. Corridoi su corridoi, sguardi veloci attraversano le porte semichiuse e si posano su corpi feriti e quasi immobili, dicono siano ancora in vita. Si apre una stanza vuota, il dottore ci mostra fiero gli arredi più recenti acquistati dall’azienda sanitaria di competenza. Ci divertiamo tra leve, sponde, spalle, maniglie, cerchiamo conferme, l’ergonomia è ancora un mare di teoria in mare aperto, molto distante dalla terraferma.
Procediamo, le tossi sembrano richiami tribali lanciati di stanza in stanza. È un tambureggiare penoso di comunicazioni affannose.
Entriamo nei locali di servizio. Poggio i miei appunti su un letto datato, abbandonato lì perché probabilmente inutile, ma penso che nessuno abbia mai avuto il coraggio di decretarne la dipartita. L’emergenza è la regola da queste parti, guai a privarsi di un piano rete in più. La targa è marchiata OMSA, nulla a che fare con i collant, penso.
Anno 1979, lo stesso anno in cui mia madre partoriva chi scrive su un letto d’ospedale. Modello TR15, codice anonimo alfanumerico neanche fosse un componente destinato all’aerospazio. Come i malati, anche il letto necessita di essere riconosciuto. Ma qui c’è traccia di qualcosa. Non è fiuto, ma aura, aura benjaminiana direi.
È un letto nudo, freddo, sintetico, eppure perfetto. Niente tracce di tecnopolimeri, di motorizzazioni elettriche, di materiali antitrauma. Nulla di nulla. Eppure è perfetto. Lo accarezzo, come si fa accarezzare di solito il miglior tubolare d’acciaio. Stricchiola continua a parlare e interrompe il mio interesse dicendomi che quel letto, prima o poi, farà la fine degli oggetti da lanciare la notte di San Silvestro. Ma qui c’è Castiglioni (Achille Castiglioni, noto designer, N.d.R.). Castiglioni messo all’angolo. E con lui Pozzi e Zerbi. E con loro la OMSA di Albinea. E con tutto ciò un compasso d’oro che dai fasti milanesi sonnecchia senza più speranza e considerazione in un misero angolo di ospedale. Stricchiola vuole rifarsi, mi dice che tempo fa lo consideravano comodo e funzionale.
Ammiro l’architettura, dimensionata con grande intelligenza, leggera ed in parte sinuosa dalle ruote in su. Rete elettrosaldata ancora perfetta, qualità per la durabilità, progetto sostenibile prima ancora che le metodologie dell’ecodesign venissero proposte ed applicate. Ci sono tracce di “Allunaggio”, di “Arco” e di “Mezzadro” in questo concetto per la salute.
Mi chiedo se qualche degente abbia mai saputo di essere disteso su un premio ambito, se abbia mai immaginato che dietro il suo letto ci sono stati caffè, chiacchiere, schizzi, risate, se c’è stata la mano di Achille. Avrà percorso chilometri, senza podio né riconoscenze. Ma ha raggiunto il suo scopo, anche qui, dove il design fatica a radicarsi nei contesti modaioli, figuriamoci nelle corsie della sofferenza.
Entra qualcuno, in divisa. Trascina il letto nervosamente, lo sbatte su ogni ostacolo presente, noi compresi. Ci chiede scusa, sfigurando nel frattempo gli strati residui di vernice e macinando le ultime briciole di dignità di quello che era un prodotto industriale. Direzione Sanitaria chiama TR15. Pronto alla dismissione.
Non ci saranno moduli espositivi sui quali campeggiare, né spot luminosi, né fiumi di gente inchinata a conoscere il nome del valoroso pezzo e dei suoi autori. Solo un deposito, l’ennesimo. Anche un glorioso progetto, prima o poi, muore.
La chiamano l’altra faccia del design.