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La metafora del Giradischi
Torna alla galleryOre 23.30. Spengo la lampada di sale di fianco al letto e mi risveglio in bianco e nero.
Avevo i calzoncini corti, le calze di cotone e le nuvole, scrutate da un metro di altezza, assomigliavano a un sacco pieno di sogni.
Una musica suonava lontano, mentre correvo su di un prato colorato d’autunno e mi fermavo solo per guardare una biglia rotolare fino in buca e con lei rotolavano ingenui i miei pensieri...
Quella musica mi era sempre vicina…
Quando finivo i compiti lo accendevo, nell’angolo nascosto dietro la porta della sala.
I dischi nelle custodie di cartone, erano prevalentemente dello zecchino d’oro…oppure di qualcosa che non mi interessava.
Quando il disco girava e le voci bianche come la mia, aleggiavano nella stanza, mi sentivo libero;
il disco girava anche d’inverno, quando la neve cadeva dietro i vetri appannati della cucina e di nascosto passavo il dito scrivendo ciao…
Ora dove sei?
Io e mia sorella ci sedevamo nei due lati del divano in velluto chiaro, lasciando mio fratello, che era il più piccolo sempre in mezzo…e cantavamo ridendo, inventando le parole.
Erano i primi anni ottanta e avevo circa sei anni e tenendo sulle gambe il mio giradischi dalla forma arrotondata, il mondo mi sembrava davvero senza spigoli…
Ora dove sei?
Quante volte mi sono chiesto dove fossero scritte le parole …e come uscivano da quei piccoli fori e poi chi gli aveva dato quel nome?
Bella metafora il giradischi: “girava” proprio come la giostra su cui mi piaceva andare dopo la scuola e le sue canzoni, iniziavano e finivano come gli episodi di Arnold.
Ore 7.00 la sveglia suona. Mi sveglio, mi guardo attorno e già mi manchi.