Gallery
Amalgamare i ricordi, a fuoco lento
Torna alla galleryMe ne sto qui da tempo, nel mio angolino, coperta da un nailon a pallini, una vestaglia gentile.
Intorno, altri “pezzi d’antiquariato”, come me, se ne stanno parcheggiati vicini, in silenzio. Solo ogni tanto, come percorsi da qualche watt birichino rimasto intrappolato tra i cavi, si illuminano e raccontano in fretta, nella voce un ronzio d’altri tempi, le storie belle del passato. Anch’io potrei narrarne tante, come i nonni fanno la sera coi nipotini. Qualche volta penso che sarebbe bello dare uno scrollone al mangianastri qui accanto, svegliarlo e chiedergli la cortesia di imprimere nel suo nastro i miei ricordi, perché non vadano perduti. Ma temo che sia troppo vecchio e stanco per darmi una mano: l’altra notte tossicchiando gracchiava canzoni di Alpini del dopoguerra, la Prima!
Eppure mi piacerebbe tanto poter parlare per qualche attimo alle cucine giovinette di adesso, avrei qualche cosa da dire anche alle microonde impazienti, quelle che imperano da regine in monolocali sempre vuoti.
Io sono stata fortunata, ho vissuto e lavorato in un tempo in cui in casa si era in tanti. Nel mio vetro sempre un po’ caldo si sono specchiati nonne e bambini, donne con grembiuli a fiori, ragazzine con le trecce raccolte in nastri colorati.
Mi piaceva tanto il mio lavoro, mi faceva sentire importante. Ero pronta al mio posto, i fuochi accesi già all’alba, prima del sole, e non smettevo di darmi da fare fino a tarda sera, quando quietate le scalmane con un bagno caldo e schiumoso, tiravo giù il coperchio e chiudevo gli occhi contenta.
Le mie giornate seguivano ritmi sempre uguali, regolate dal tic tac dell’orologio a cucù appeso dall’altra parte, alla parete del salotto. Ma non desideravo altro, a me piaceva così.
Me ne stavo al centro della cucina, sistemata tra mobili verdini e allegri, fioriti tutti negli anni sessanta, e aspettavo in penombra che la casa si animasse. Accoglievo con il caffè, il mattino, uomini in blu che partivano per il lavoro; poco dopo arrivavano i bimbi affamati di latte caldo e biscotti appena sfornati; poi, mentre sul tagliere si allargava il sole giallo della sfoglia, preparavo i fornelli accesi per il ragù.
Erano le ore più belle: mi lasciavo schizzare di rosso per ore, era un gioco tra noi, ma se quel birbante esagerava troppo mi arrabbiavo e gli davo una leggera “strinatina” (in dialetto emiliano, “bruciatina”, N.d.R.). Quanto ho lavorato! Il gas mi circolava nelle vene senza problemi, ero giovane e forte allora.
Verso mezzogiorno, mentre già cuocevo il minestrone per la cena, e me ne occupavo sempre da sola, la radio da sopra il frigo mi teneva compagnia. Eravamo tutti in sintonia, un segreto legame di parentela avvicinava noi “mobili vivi”, aiutanti domestici percorsi da brividi di fuoco o dall’elettricità.
Che bei tempi! La domenica poi, era un giorno davvero speciale: ospitata la torta di mele, che poi riposava beata nella credenza sotto un velo di zucchero, lasciavo vagare nell’aria il vapore del brodo e del lesso, appannando tutti i vetri per i disegni dei bimbi, e infine ridevo felice per lo sfrigolio delle patate arrosto. Era una vera festa, anche per me.
Ogni cosa ha il suo tempo, non sono triste. Me ne sto qui al calduccio, avvolta della mia vestaglia a pallini, e scaldo i miei ricordi in camomille di sogno. Colleziono anch’io momenti di vita, mi scorrono davanti al vetro annerito e li guardo passare felici, recite a soggetto... per un “oggetto”.